RIPENSARE GLI SPAZI FISICI, EMOTIVI E RELAZIONALI NEI SERVIZI 0-6 ANNI DURANTE E DOPO L’EMERGENZA CORONAVIRUS
E poi le idee si attaccano: tentazioni e tentativi nel lavoro quotidiano con l’insegnante.
Parte III: teoria e metodo di riferimento – dott.ssa Daniela Negretti
È per tutti evidente che l’irrompere della realtà della pandemia da COVID-19 ci ha presentato e ci presenta sulla scena personale e professionale un pieno di novità, in prima battuta vissuta con un senso di difficoltà, di precarietà e spesso di forte limitazione nella possibilità di essere e fare quello che vorremmo o che abbiamo sempre fatto. Questo porta alla ribalta una necessità che, a nostro avviso, è in verità sempre presente e importante per vivere e lavorare in un modo qualitativamente differente, che tendiamo a trascurare finché la “barca” continua ad andare con il vento con cui è sempre andata: è la necessità di pensarsi e viversi come soggetti che in ogni condizione hanno la facoltà di mettersi e rimettersi in gioco, aprendo per se stessi e gli altri una visione prospettica più ampia e un processo di possibilità. Questo apparentemente semplice presupposto è l’aspetto centrale di un metodo e di una teoria che proponiamo nei servizi per l’infanzia con cui lavoriamo e che proverò a descrivervi.
Il punto di partenza è la proposta teorica di Psicoanalisi della Relazione e di Michele Minolli, in cui si definisce appunto l’Io-soggetto (2014) come un sistema complesso in costante attività di auto-eco-organizzazione, che provvede a riequilibrare la sua stessa coerenza nel corso del divenire della sua esistenza e nella reciproca interazione con altri sistemi, in funzione di cambiamenti interni ed esterni, in un gioco continuo di rimandi, influenze e riorganizzazioni e alla Pedagogia della Presenza (M. Negretti, 2014). Sottolineo qui solo un punto di questi riferimenti teorici che risulta utile per la riflessione che voglio portare oggi e che riguarda l’evidenza per cui, al di là di alcuni aspetti specifici per le varie età, il soggetto si sviluppa sempre, nel corso di tutta la vita, e con le medesime modalità di auto-eco-organizzazione con il “contesto” con cui interagisce: quindi, partiamo nel nostro approccio al lavoro con l’infanzia non dall’idea di dover accompagnare lo sviluppo di un bambino, ma di un Io-soggetto. Questo ha come ricaduta molto concreta l’avere in mente che quello che accade alla scuola infanzia possa essere in effetti l’esperienza di un modo di stare nel mondo, nelle cose e nelle relazioni che poi mi porto dietro anche fuori di lì e per la vita, in contesti che non sono certo pre-pensati a misura di bambino o presunti “semplificati”. Avere un obiettivo prefissato è normale e giusto per poter attrezzare ogni Io-soggetto di tutte o della maggior parte delle “nozioni” utili per affrontare la vita. Formazione è un’altra cosa. Formazione esula dai contenuti e mira direttamente all’Io-soggetto. Formazione, in senso specifico, non è darsi un obiettivo concreto, come l’intelligenza o la creatività o l’attività o la conformità a un modello, ma solo e soltanto la consistenza dell’Io-soggetto. A questo punto “educazione” diventa “formazione” e formare vuol dire essere di aiuto sia al bambino che all’adulto perché prenda in mano la propria vita (M. Minolli, 2014). A livello più ampio, è per tutti evidente che nella vita quasi nulla è pre-pensato a misura di bambino (o a misura nostra) e che quello che proviamo a pre-pensare poi non va mai esattamente come previsto… quindi, dopo aver mandato giù questo bel rospo, che ci rimanda quotidianamente alla complessità e non linearità del mondo, resa ancor più palese appunto dall’ emergenza pandemia e da quanto ne sta conseguendo, è quasi ovvio chiedersi perché mai dovremmo ostinarci a pensare, vivere e lavorare come se fosse così. Per quanto detto, anche nel nostro lavoro limitarsi a pensare “prima” e poi agire di conseguenza rischia di appesantire noi e la relazione di idee apriori, presupposti e aspettative più o meno implicite e quindi banalizzare quel che fanno e chi sono i bambini e anche noi e come “si sta” nelle situazioni, non permettendo a nessuno di scoprirsi nel proprio essere in quel momento e in quel contesto. Le idee apriori, le aspettative e tutto il resto che nel titolo abbiamo definito “tentazioni”, le abbiamo tutti, perché funzioniamo cognitivamente così e ciò è inevitabile, ma questo non va dato per scontato, va interrogato e questo passaggio deve essere fatto prima.
Quindi, se per una parte, in quanto tutti Io-soggetto, gli educatori, i genitori, i bambini funzionano e sono uguali, in un piano di simmetria, allora che ruolo possono avere i “grandi”? Ciò che è asimmetrico e quindi va messo a carico dell’adulto, a nostro avviso, è l’assunzione di responsabilità di garantire un metodo e un obiettivo (che chiamiamo Pedagogia della presenza) che abbiano a fuoco appunto questa esigenza di tenere vivo il processo qualitativo dell’Io-soggetto verso lo sviluppo di se stesso e della propria creatività nel mondo. La disponibilità e la capacità dell’insegnante di ascoltare ciò che l’altro sta portando e di prenderlo sul serio, così come di ascoltare se stesso all’interno dell’interazione e di non ‘darsi per scontato’, sono strettamente connesse a quest’idea etica della relazione di incontro con l’alterità che implica una disponibilità a lasciarsi ‘mettere in crisi’ dall’altro, nel senso etimologico di apertura a nuovi modi di giudizio, a nuove prospettive, a qualcosa di differente con cui confrontarsi. Questa dimensione critica determina necessariamente un certo grado di fatica e di incertezza, ma è condizione per l’evolversi costante e il definirsi di nuovi spazi di scelta, di soluzioni alternative e per il progredire del processo di conoscenza, in un’esperienza di progressiva appropriazione – da parte di entrambi – di questo stesso stile di approccio alla realtà. È responsabilità dei “grandi” questo mantenersi vivi e disponibili e in ascolto rispettoso, aprendo così uno spazio per se stessi e gli altri per esprimersi, pronunciarsi, accogliere, accettarsi e mettersi in movimento nelle situazioni, anche le più difficili, trasmettendo una visione ampia e aperta dello spazio esistenziale del possibile. Ma come lo vediamo, come si concretizza questo metodo? Le parole chiave cui riferirsi sono quelle che avete già sentito fin qui e di cui vi porto qualche esempio: mi accorgo come educatore di questa differente QUALITA’ del pormi in relazione con l’altro quando mi ritrovo in un processo continuo (quindi prima, durante e dopo) fatto di OSSERVARE e OSSERVARSI, di ASCOLTARE e ASCOLTARSI, quando mi esprimo e pronuncio con il bambino portando PROPOSTE o “IPOTESI” APERTE ad essere interrogate e approfondite in quanto riconosciute ed esplicitate anche all’altro come il mio punto di vista, che è uno e non è unico e vero, ma di fatto risulta solo un pretesto per avere un punto di partenza … e quindi di conseguenza mi trovo ad INCURIOSIRMI, SORPRENDERMI e VALORIZZARE allo stesso modo l’ESPRESSIONE del punto di vista di tutti e ad APRIRE il tema con DOMANDE o ALTRE PROPOSTE, a RACCOGLIERE le PROSPETTIVE emerse raccordando SIMILITUDINI o DIVERGENZE, RICAPITOLANDO il PERCORSO che ci ha portati fin lì e ad ALTRE EVENTUALI CONNESSIONI e tematiche… questi esempi rendono bene l’idea di cosa si intenda per “presenza” del soggetto e quindi per Pedagogia della Presenza che, mi permetto di precisare, diventa in modo apparentemente paradossale anche una pedagogia dell’assenza di tutto quel modo “ingombrante” e invadente di stare con l’altro che abbiamo descritto come rischioso… perché a volte ci accorgiamo di lavorare sulla qualità dell’esserci anche quando ci ritroviamo CON FIDUCIA DA SOLI (e permettiamo lo stesso anche ai bambini) A SPERIMENTARE IL CAOS, inteso come un essere in grado di diventare non integrato, di dibattersi ed essere in uno stato di disorientamento: per dirla con Winnicott, essere in grado di esistere, di essere vivi per un periodo senza essere né un reattore nei confronti di un urto esterno, né una persona attiva con una direzione di interessi o movimento… in questo che definirei un FLUSSO DI PROSPETTIVE DI ESPERIENZA CONDIVISA che risulta complesso e non lineare.
Per non perdersi nel flusso e non averne il timore, bisogna ASSUMERSI la FATICA e il CORAGGIO (e poi anche la soddisfazione) di immergersi in questa complessità del possibile, incontrando se stessi e il bambino. Partire dall’educatore in quanto Io-soggetto presuppone che l’educatore (ma l’adulto in generale) abbia voglia di provare a sapere chi è e continuare a vedersi e conoscersi. Questo è il salto qualitativo: c’è bisogno di tempo e pazienza ed è essenziale che ci sia alle spalle un lavoro non solo di equipe pedagogica o sulla gestione dei casi come solitamente avviene ma, come vi sarà evidente, diventa quasi prerequisito anche un lavoro su se stessi che si focalizza insieme sul preliminare e sul mentre e che noi chiamiamo di “supervisione”, che ha inevitabilmente affondi anche personali e che ad esempio proprio durante l’emergenza Covid-19 abbiamo proposto in modo trasversale a gruppi di insegnanti ed educatori di realtà diverse, proprio perché ci si aiutasse a focalizzarsi su se stessi e sul processo più che sulle dinamiche di sezione, di equipe o sulle specificità del rapporto con alcuni bambini o genitori, ecc… come classicamente avviene.
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
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