’Lo zero è un numero però da solo non è niente’: sulla qualità della relazione educativa
Monica Negretti*
‘Le vite dei bambini sono vissute attraverso infanzie organizzate per loro dalle interpretazioni che gli adulti fanno dell’Infanzia e di quello che i bambini sono e dovrebbero essere’ ( Loris Maluguzzi)
‘La pedagogia implica scelte, e scegliere non vuol dire decidere ciò che è giusto rispetto a ciò che è sbagliato. Scegliere vuol dire avere il coraggio del dubbio, dell’incertezza, vuol dire partecipare a qualcosa per cui ci si assume la responsabilità’ ( Carla Rinaldi)
Il libro di Gandolfi e Negri ci propone e apre, attraverso il tema dei disturbi specifici di apprendimento e con l’approfondimento sul cosa serve per arrivare alla conquista della scrittura, della lettura e del calcolo (Gandolfi e Negri 2023, p.3), ad una riflessione più ampia sul tema dalla ‘qualità’ della relazione educativa. E la qualità ha a che fare con il tipo di investimento che l’adulto ha sui bambini con cui è in interazione. Chi è un bambino? Che rapporto c’è tra insegnamento e apprendimento? Qual è il ruolo dell’adulto?
Per questo nel commento alla pubblicazione voglio concentrarmi sulla ‘posizione’ dell’adulto all’interno del processo di sviluppo e di apprendimento che avviene a scuola. Due mi sembrano i concetti fondamentali intorno ai quali far ruotare la riflessione: l’idea di bambino e quindi di essere umano di cui l’adulto è portatore e lo spostamento di attenzione dal risultato finale alla qualità del processo di apprendimento – cambiamento- che si è generato e che coinvolge tutti i soggetti della relazione. Non solo i bambini.
Chi è un bambino? Perché un bambino dovrebbe imparare a leggere, scrivere e far di conto? Perché dovrebbe andare a scuola?
Nel libro viene proposta un’idea di bambino competente e non ‘mancante’ rispetto all’adulto: competente dalla nascita nel mostrare i suoi propri modi di connettersi col mondo e con gli altri, in qualunque circostanza. Gandolfi e Negri (2023) suggeriscono infatti di cambiare prospettiva e di vedere il mondo dalla parte dei bambini. Scrivono gli autori: ‘Guardando al bambino, al suo sviluppo nella nostra ottica, che chiamiamo processuale (..) la conquista della scrittura, della lettura e del calcolo sono invece indicatori di come ogni bambino usa il proprio multiforme bagaglio corporeo, nel supportare il cervello nell’operazione di riordino della marea di stimoli che gli giungono, ciò nell’intento di dare significato al mondo. Significato che necessita di essere condiviso con la sua comunità di appartenenza (…) Questo processo di connessione reciproca è ciò che costruisce la mente conversazionale (..) Il bambino nel chiedere appartenenza costruisce appartenenza’ ( Gandolfi e Negri p. 61-62)
Guardare al bambino come ad un soggetto di bisogni ma anche di diritti, significa volgere lo sguardo verso l’unicità di ogni bambino, verso questo bambino ricercatore che attua modalità sue proprie per entrare in relazione col mondo. Ed è nel processo che l’unicità si rivela e non nel risultato finale. Il rischio di concentrarsi sul risultato è che ciò che l’adulto si aspetta di vedere diventi ciò che l’adulto vede, e che quindi la peculiarità e la creatività del singolo bambino rimangano nell’ombra oppure, più spesso, vengano lette come deviazione dalla norma e quindi come patologia. Nel capitolo 7 – dedicato agli insegnanti… ma non solo- gli autori propongono all’adulto di ‘ vedere mentre osserva e comprendere ciò che il bambino scolaro sta insegnando sul funzionamento di una mente in crescita in conversazione con il mondo. Pensiamo che la scuola che serve ad alunni, insegnanti e famiglie è quella che, condividendo i significati del loro agire, co-costruisce le soluzioni ai problemi comuni’ (Gandolfi e Negri p.240)
Come gli insegnanti possono sostenere questa qualità di relazione? Qual è la posizione dell’adulto nel processo di co-costruzione?
Quanto scritto sino ad ora sollecita l’adulto alla curiosità verso il bambino e quindi all’ascolto e all’osservazione. Un primo traguardo in questo senso sarebbe una scuola più ‘ a misura di bambino’ (Gandolfi e Negri p.242) quindi caratterizzata da proposte rispettose dell’unicità dei bambini e agganciate al processo messo in atto dal singolo bambino nel suo incontro, nel caso specifico, con le lettere e i numeri. Quindi si potrebbe dire che un obiettivo è trovare e sostenere il ‘modo’ che quel bambino sta usando per avvicinarsi alla richiesta fatta dall’adulto. Ma questo è sufficiente? Ci chiediamo a questo punto quale sia l’obiettivo dell’educazione: tramettere contenuti e strumenti (anche in modo rispettoso e attento) o sostenere la possibilità di una formazione della soggettività del bambino, favorendo la possibilità di cogliere il valore di sé per prendere in mano la propria vita? Le discipline, il gruppo dei pari, gli insegnanti possono diventare l’occasione per sperimentare ‘un modo’ di affrontare l’incontro col mondo, per conversare col mondo che il bambino può portare anche fuori da scuola?
Riflettendo sulle situazioni concrete che gli autori ci raccontano nei capitoli 8 e 9 del testo, si può proprio notare, in modo trasversale ai diversi casi, come il lavoro di terapia e supporto sia volto a cogliere e valorizzare la specificità di approccio di ogni bambino e nel leggere le difficoltà dentro ad un sistema di significati costruiti con gli adulti, insegnanti o genitori. La consultazione apre uno spazio in cui anche gli adulti possono cogliere quanto hanno messo in atto con quel bambino in modo scontato e rigido, come una verità a cui l’Altro deve aderire. Se questa consapevolezza porta ad una maggiore flessibilità e quindi curiosità verso il bambino allora è possibile che si generi una qualità relazionale in cui il bambino può essere portato ad avere più fiducia in se stesso e quindi a procedere nella sua ‘conversazione’ con l’esterno. Nel suo procedere nella vita.
Per problematizzare ulteriormente questa prospettiva trovo interessante la proposta teorica di Michele Minolli (2015) sul divenire dell’Io-Soggetto: il soggetto si sviluppa sempre, nel corso di tutta la vita e con le medesime modalità di auto-eco-organizzazione con il ‘contesto’ con cui interagisce. Cosa succede se, a scuola, gli adulti hanno in mente di dover accompagnare lo sviluppo di un Io-Soggetto? Scrive Minolli (2015) che le teorie o metamodelli dell’età dello sviluppo o del cambiamento propongono una visione che non comprende l’Io-Soggetto. É molto probabile che sia solo una questione di linguaggio, ma quello che si coglie nelle presentazioni delle varie teorie sull’educazione è che il soggetto sia solo una variabile data per scontata o inesistente. Il salto è dato dall’andare oltre le ‘nozioni’ evolutive da apprendere per considerare, invece, il cambiamento che sempre accompagna lo svolgersi dell’esistenza. Quindi la qualità del processo. Ma il processo è solo del bambino? Gli autori descrivono nei dettagli l’esperienza triennale condotta in due scuole dell’infanzia ( Gandolfi e Negri p.242), quello che sottolineo qui è che, partendo dall’osservazione dei bambini, il cambiamento però abbia riguardato anche le insegnanti coinvolte nel progetto: ‘la sollecitazione a mettere in comune osservazioni e la condivisone dei commenti (..) per cominciare un percorso in cui riconoscere la propria competenza nel comprendere il modo di funzionare dei bambini in generale e una riflessione sul senso del proprio lavoro; di ciò che si fa, come o si fa, mentre lo si fa.’ (Gandolfi e Negri p.244). Nella prospettiva della teoria di Minolli anche l’insegnante o il genitore è coinvolto in un processo trasformativo che porta a relativizzare il proprio punto di vista come uno solo dei possibili e questo ‘poter riconoscere, prima a se stessi e poi all’altro, che le proprie convinzioni altro non sono che propri punti di vista ‘forma’ il bambino a rispettare, prendere sul serio e sviluppare il proprio essere consistente’ ( Minolli, 2015 p. 231). Quindi, se per una parte, in quanto tutti Io- Soggetto, gli insegnanti, i genitori, i bambini funzionano e sono uguali, in un piano di simmetria, che ruolo possono avere i ‘grandi’? ‘Ciò che è asimmetrico e quindi va messo a carico dell’adulto, è l’assunzione di responsabilità di garantire un metodo e un obiettivo ( che chiamiamo Pedagogia della Presenza) che abbiano a fuoco appunto questa esigenza di tenere vivo il processo qualitativo dell’Io-Soggetto verso lo sviluppo di sé stesso e della propria creatività nel mondo (Negretti D., Negretti M., Mascetti M., 2019). La disponibilità dell’adulto ad ascoltare ciò che il bambino propone e di prenderlo sul serio e contemporaneamente di ascoltare se stesso all’interno della relazione, apre alla possibilità di farsi trasformare dall’altro, intesa come possibilità che emergano nuove domande, nuove prospettive, nuovi spazi di scelta e soluzioni alternative. Scrive Minolli (2015): ‘ In fondo apertura vuol dire trasmettere il messaggio che il mondo è grande e c’è posto per tutti (…) creare un clima rispettoso dove l’apertura è possibile, da luogo ad uno spazio formativo. Non già basato sui contenuti- che diventano dei pretesti (grassetto mio)- ma sulla possibilità che l’Io-Soggetto possa accedere alla creatività’.
Si aprono qui nuove domande sui disturbi specifici della relazione di apprendimento: l’esperienza dei nostri autori si è realizzata nelle scuole dell’infanzia e ha lavorato sullo sviluppo dei pre-requisiti alla letto-scrittura e al calcolo. Ciò che è stato osservato come può dialogare con il modo in cui le maestre della Scuola Primaria propongono e valutano l’apprendimento di queste abilità? Nel 2023, gli alunni nativi digitali che interrogativi pongono alla progettazione didattica? Che relazione c’è tra bambini e numeri? Bambini e lettere? Nei capitoli 4, 5 e 7 gli autori ci permettono di viaggiare con loro dentro ai concetti di lettura, scrittura e calcolo: nel ripercorrere storicamente come l’uomo ha raggiunto la capacità di scrivere si incontra il rapporto dell’essere umano coi suoni ma anche con l’organizzazione spaziale del mondo, la lettura, intesa come una vera e propria lingua -visuale ne valorizza gli aspetti di natura percettivo-motoria e il calcolo concepito come pensiero matematico avvicina al poterlo significare come un atto creativo utile nel ‘mettere in ordine’ con un certo criterio gli elementi del mondo per poterli connettere. Già solo questa manciata di concetti, se presenti nella mente e nello sguardo di un insegnante, potrebbero aprire ricerche, dialoghi, percorsi, con tante specificità (quante sono i bambini) in una prima classe della scuola Primaria. Questa curiosità e disponibilità da parte dell’adulto restituirebbe ai bambini delle discipline vive, tutte da esplorare e ricostruire e non dei contenuti morti a cui passivamente aderire. L’insegnante in questo caso diventa un ricercatore, gli insegnanti non sono solo portatori di materia prima ( testi, storie, video, foto) da consegnare a specialisti che poi rielaborano e ricercano, ma possono essere essi stessi ricercatori se si spingono altre la pedagogia conosciuta. Conosciamo ancora troppo poco di come un bambino impara, di come nasce una conoscenza, di come si forma un’idea, di quali e quante strategie servono al pensiero e al linguaggio. Siamo ancora troppo ignoranti al riguardo per concederci il lusso di non documentare e di non cercare. Non che la ‘trasmissione di contenuti’ debba essere bandita ma possiamo distinguere tra una trasmissione di ordine conservativo ed una di ordine innovativo. La trasmissione di ordine innovativo è quella che oltre al proporre dei temi è l’unica via che ci conduce ad un avvicinamento autentico e reale nei confronti del bambino, autentica e reale perché caratterizzata dal movimento, da una dinamica, da una sensazione fisica, da una trasformazione: per esempio per parlare di scrittura con te, io stesso insegnante mi sono chiesto cos’è la scrittura per me, mi sono documentato per aprire e dialogare con i miei impliciti e poter cogliere le diverse sfaccettature di cui il bambino potrebbe essere portatore e durante la lezione io insegnante sono curioso di cogliere il processo che si sta sviluppando e che non conosco a priori, che è fatto da me e dai bambini. Come una storia di vita. Trovo che questa prospettiva possa far uscire la scuola e la pedagogia da un’immagine di impotenza e di separazione della realtà perché può ridare forza al ‘genio potenziale’ (Morin, 1999) degli insegnanti riscattando e offrendo senso al un lavoro spesso umiliato e ruotinario.
‘I bambini (a mio avviso) non solo entrano a far parte della cultura attraverso l’utilizzo del linguaggio, o meglio dei linguaggi, ma, se posti in condizione valorizzante, producono processi e prodotti culturalmente significativi, cioè in grado di elaborare nuovi significati’. (Carla Rinaldi 2002, p.17)
Bibliografia
Gandolfi M., Negri A., (2023). Disturbi specifici (della relazione) di apprendimento. Roma: Giovanni Fioriti Editore
Malaguzzi, L. (1996). I cento linguaggi dei bambini. Catalogo della mostra. Reggio Emilia: Reggio Children.
Minolli, M. (2015). Essere e divenire. La sofferenza dell’individualismo. Milano: Franco Angeli.
Morin E. (1999) Tr.it., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (2000). Milano: Raffaello Cortina
Negretti D., Negretti M., Mascetti M., (2022). Tentazioni e tentativi nel lavoro quotidiano dell’insegnante. Ricerca psicoanalitica, Anno XXXIII, n. 1, 27-40
Rinaldi, C. (2002). Leggero è il racconto. In: Comune di Reggio Emilia, a cura di., Sipario. Anello delle trasformazioni. Reggio Emilia: Reggio Children.
Rinaldi, C. (2009). In dialogo con Reggio Emilia. Reggio Emilia: Reggio Children.