Dialoghi non convenzionali… tra sport e psicologia

Da una conversazione con Valter Montini – head coach 1° squadra – basket femminile A1 Società Sportiva Pool Comense

Pensando ai colleghi psicologi o agli allenatori che ancora non hanno provato a lavorare fianco fianco, mi è sembrato utile e non banale proporre una parte dell’ intervista fatta ad un head coach di basket femminile che, nella scorsa stagione, ha lavorato con la nostra equipe. Dalla conversazione emerge come, prima di ogni altro tipo di intervento, sia fondamentale il “contratto psicologico” tra esperto e coach ( rappresentazioni reciproche, aspettative, timori, desideri, bisogni, limiti). Da lì, poi la scelta degli strumenti, dei modi e dei tempi, il susseguirsi dei contenuti e la creazione di valore aggiunto in termini di possibilità di integrare i punti di vista diversi.
C’è un territorio selvaggio tra il coach e la squadra… quello oltre la tecnica e la tattica. Ci sono alcune decisioni per cui non basta il ‘buon senso’…..(come integrare il gruppo italiane e straniere? Cosa fare con giocatrici che giocano “in solitaria” e non passano la palla? Come affrontare tensioni del gruppo non esplicitate verbalmente? Come aiutare le atlete ad esprimere le loro emozioni, a ridurre il rimuginio?…Come affrontare la paura di avversarie “fisicamente forti”? e la paura di sbagliare? E l’ansia di non farcela? E come tenere la concentrazione costante? E le malinconie conseguenti la “solitudine”, il distacco dai familiari che le giocatrici costantemente vivono? E le somatizzazioni? E la paura di farsi male?). A volte prendevo decisioni sui comportamenti e avevo la sensazione di non sapere che cosa ne sarebbe seguito. La psicologia è diventata lo strumento per dare organicità al buon senso e restituirmi più consapevolezza delle mie intuizioni. Volevo uno strumento per poter condividere di più le decisioni con la squadra: ecco perché ho deciso di iniziare un percorso di coaching one to one con uno psicologo dello sport.
Conoscevo la Psicologia, quella dei corsi allenatori, ma mi era sempre sembrata uno strumento molto teorico e astratto rispetto alle mie esigenze quotidiane nella gestione delle atlete: all’inizio della collaborazione con lo psicologo il mio timore era quello di avere ancora delle teorie poco applicabili e confusive rispetto al mio ruolo con le ragazze. L’esperienza del coaching mi ha però offerto una psicologia che è subito diventata uno strumento pratico per vivere la quotidianità del mio lavoro di allenatore. Negli incontri con lo psicologo potevo rivedere e analizzare le mie giornate sul campo: ho ri-conosciuto gli aspetti umani dell’essere una squadra ed ho allenato la mia capacità nel leggere le dinamiche tra le atlete. I nostri incontri nascevano sul commento dell’accaduto o in previsione di eventi importanti per me e per le ragazze (…).
Nel giro di qualche mese ho cominciato a vivere e sentire gli effetti di questo percorso. Ciò che mi colpiva era la “mia ritrovata tranquillità” di fronte agli eventi: la partita importante o la reazione eccessiva di un’atleta, mi trovavano sempre più pronto ad accogliere ciò che stava succedendo senza paura o ansia.. e le soluzioni erano sempre più efficaci. In un anno in cui dovevo definire il mio ruolo ( alla prima esperienza come head coach della 1° squadra), mi sarei aspettato di essere ansioso e insicuro nelle scelte.. mi sono ritrovato a non avere più problemi tecnico- tattici e meno motivi per preoccuparmi. Il lavoro di coaching con lo psicologo dello sport ha accelerato la mia maturazione emotiva: la preoccupazione tattica si trasformava in certezza, il dubbio tattico tra schema a-b-c non era più un rischio ma significava avere più possibilità, il dubbio diventava opportunità. La stagione è stata difficile, i risultati stentavano ad arrivare ma la serenità mi ha permesso di far prevalere alla posizione assoluta la logicità delle scelte rispetto agli obiettivi.
Dalla tranquillità del coach che è anche fiducia in sé, è arrivata la spinta e la forza per cercare di trovare con le giocatrici uno spirito di condivisione: ho sollecitato la libertà di parlare anche di tecnica, di esprimere difficoltà anche non tecniche con l’idea che insieme avremmo potuto trovare delle soluzioni. Questa modalità di “allenamento tecnico e mentale insieme” ha generato un affiatamento con le atlete e tra le atlete e una cooperazione vera e globale: loro mi davano suggerimenti tecnici, ed è importante perchè più loro sono consapevoli e protagoniste più la prestazione migliora… le decisioni non erano più “ le mie decisioni calate dall’altro” ma le nostre logiche decisioni. Mi sono scoperto molto disponibile.
La condivisione è andata oltre gli aspetti tecnici fino a toccare gli aspetti umani dell’essere atleta e squadra: è cresciuta la fiducia reciproca e la coscienza dell’obiettivo comune. Dalla fiducia è nata la possibilità di affrontare “gli errori” con responsabilità e impegno e non rifuggendoli cercando scuse e colpevoli esterni. La condivisione e la fiducia ci hanno consentito di capire e sentire che la performance tecnica non coincideva con il valore della persone, che io non attaccavo loro come persone ma valutavo e correggevo i loro errori. Sembra un concetto scontato, ma nella mia esperienza ho trovato che proprio questa confusione stava all’origine di conflitti e incomprensioni.
La squadra è andata sempre più definendosi come un organismo non dipendente da me, un’ entità pienamente decisionale. Non un’ immagine della mia tecnica ma l’immagine di se stessa da me guidata. Quella che abbiamo creato è stata l’identità di squadra che si è espressa nella creatività e negli ardori agonistici…ed il rendimento è aumentato notevolmente. Ciò si è manifestato principalmente in un periodo della stagione difficoltoso: affrontavamo le prime in classifica e avevamo la squadra decimata dagli infortuni delle migliori…qui è emersa una Comense che viveva una sua vita tecnico-tattica e che aveva una sua personalità di fronte agli squadroni.. non abbiamo vinto ma abbiamo finito ogni partita esprimendo valori umani e agonisti superiori alle aspettative. Questo veniva applaudito dai tifosi e dai dirigenti.
Sarebbe importante che coach e psicologi dello sport possano confrontarsi e conoscersi e superare la diffidenza che nasce dall’idea che la psicologia porti problemi e che gli psicologi non appartengano allo sport. Ho constatato che è una questione di approccio e di come gli psicologi stessi si pongono nel loro ruolo, di come gli allenatori, ampiamente preparati sulla tecnica e sulla tattica, utilizzano questo ulteriore apporto per potere superare efficacemente, senza improvvisare o basandosi solo sull’esperienza, le difficoltà nella gestione degli aspetti umani, emozionali e comunicativi che attraversano la squadra ogni giorno e che spesso fanno la differenza nelle situazioni difficili di gioco.

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